Swami Venkatesananda, Seminario a Parigi, Marzo 1982
Secondo Discorso
Secondo Discorso
LA TRISTEZZA NON E' INEVITABILE
Se
siamo persone religiose, ovviamente abbiamo una certa fede verso un’entità
chiamata “dio”; se invece non abbiamo alcuna inclinazione per un sistema basato
sulla fede, comunque possiamo constatare che la tristezza nella nostra vita non è inevitabile ma che c’è una certa meta accessibile, al di là
dell’infelicità. Questo fattore o questa verità è indicato da Patanjali in un
sutra:
“svapna nidrā jnānā
alambanam vā”.
(I,38)
“Tieni a mente la
saggezza acquisita osservando quanto avviene nel sonno”.
Non
hai bisogno di credere che ci sia uno stato al di là della tristezza e che sia
a te accessibile, non hai bisogno di crederci, sai che esiste, se contempli
seriamente il fatto che anche tu passi attraverso quest'esperienza ogni notte
durante il sonno profondo.
E'
anche possibile che proprio quello stato abbia ispirato un concetto che
fu chiamato dio. Infatti ogni sistema
religioso, ogni fede ci dice che dio è al di là dell’infelicità. Se dio stesso
fosse infelice, non potrebbe certo rendere qualcuno felice!
Se fosse imperfetto, non cercherebbe nemmeno la perfezione in te; se dio stesso
fosse angosciato, renderebbe anche te più triste.
Anche il sistema di fede ti conduce dunque a qualcosa che va oltre
quello che noi chiamiamo il normale stato di veglia di tutti i giorni; questo è
indicato dall'esperienza del sonno profondo.
I
sistemi religiosi lo indicano con delle incognite che chiamano "d i o" (proprio come in matematica, usiamo a b c, x y z). Si tratta semplicemente di una quantità
incognita.
Le
incognite possono essere introdotte in qualsiasi equazione.
Se
la tua vita è piena di tristezza, questo "d i o" è una "x y z" che è al di là della
tristezza. Se la tua vita è piena d'angoscia, non hai pace mentale, non hai
pace per niente, d i o e una x y z che è piena di pace: tutto qui. Questo d i o
deve essere facilmente accessibile, sempre presente ovunque. Infatti, se sei
veramente stanco puoi dormire ovunque, in qualsiasi momento. Il sonno, meno
l'inconsapevolezza in esso, è dio.
Nella
Mandukya Upanishad, c’è una maniera
piuttosto difficile di descrivere questa situazione; quello stato è chiamato “turiya” e, sfortunatamente, quelli che
hanno commentato le Upanishad hanno reso questo “turiya” incomprensibile.
Turiya significa letteralmente “il
quarto”: veglia, sogno, sonno - - il quarto stato. Questo quarto non però nel senso 1,2,3,4, ma
nel senso che se tre sono seduti su questo pavimento, il pavimento è il
quarto. Non si tratta di un’altra
persona seduta su qualche altra cosa. In questo esempio il pavimento è
continuo, costante, il sottofondo, la base di ogni esperienza: questo esiste anche nel sonno (qui s'intende
sonno profondo senza sogni). A volte quando
sono a letto, metto questa sciarpa sulla testa; quando mi alzo la mattina, la
sciarpa rimane sul letto: perché? Perché non è “me”.
E’
straordinario che ogni notte vado a letto con le due mani, le due gambe e le
due braccia, quando mi alzo, mi alzo con esse.
Se la persona che va a dormire non fosse continua, collegata alla
persona che si sveglia, sarebbe anche possibile lasciare la testa sul cuscino e
uscire fuori!!
Quell'entità che è andata a letto, cioè la persona sveglia, entra in uno stato chiamato
sogno, poi in uno stato chiamato sonno profondo, poi emerge di nuovo. Forse
avete visto qualche volta un canale in un punto in cui deve attraversare la
strada: il canale va sotto terra, sotto il livello della strada, poi torna su dall'altro lato e continua. In maniera
simile, nel sonno la coscienza va sotto qualcosa e poi emerge di nuovo. Questo flusso di coscienza è dio: era presente anche nel sonno ed è presente ora.
In questo flusso di coscienza non
c’è infelicità, non c’è tristezza, non c’è inquietudine. L’insegnamento che lo yoga ci dà è rivolto
alla scoperta di questo stato.
Cosa
c'impedisce di essere immediatamente consci di questo flusso, che è presente
anche in questo momento? Era presente nel sonno e perciò eravamo beati e
felici, anche se non sapevamo di esserlo; è presente anche ora ma perché non ne
siamo direttamente consci? C’è un impedimento: c’è un impedimento nel
sonno che è l'inconsapevolezza e c’è un ostacolo ora, chiamato “diverse
esperienze”, con ogni esperienza che crea un “soggetto” dell’esperienza stessa.
Ora stiamo guardando a questo stato e cercando di capire quali sono i fattori comuni e
quali sono le diversità tra il sonno e lo stato di veglia. Il fattore comune è lo stato di coscienza che
va attraverso tutti gli stati, ininterrotto.
Veglia - sogno - sonno - veglia - sogno - sonno. Sembra esserci un fattore non comune tra la
veglia e il sonno (tralasciamo il sogno che è come essere svegli in una parte
diversa del mondo); si tratta del fatto che ora sono cosciente, nel sonno non
lo ero. Quando sono cosciente, lo sono
di “io”, “tu”, “lui”, “lei” ... nel sonno non ero cosciente di tutto
ciò ma, nello stesso tempo, non c’erano assolutamente problemi:
nello stato di veglia ci sono problemi a non finire. Queste sono le due differenze. Ora ti gratti la testa e cerchi di capire
come “combinare” questi due stati, per mantenere la consapevolezza, senza che i
problemi sorgano!
Questi
problemi, dunque, non esistevano nel sonno, ma nel sonno c’era ignoranza. Sono
uscito dall'inconsapevolezza, mi sono svegliato, anche i problemi si sono svegliati: chi è dunque
la madre di tutti questi problemi? ... L’ignoranza! E’ da essa che tutte queste cose vengono
fuori; come una madre dà vita ai figli, questo stato di inconsapevolezza,
l’ignoranza, dà vita a tutti questi problemi.
Primo fra tutti, il senso dell’ego: “io sono”, e poi tutti i problemi
del tipo: tu sei, lui è, lei è, esso è ... questo non è ...
Questo
è spiegato nel più semplice dei modi negli Yoga
Sutra, ma in maniera molto più complicata nei commenti! I commenti dovrebbero semplificare il testo,
chiarire, portare luce, ma lo rendono così oscuro!
Il
senso dell’ego e la sua espansione in “questo mi piace”, “questo non mi
piace”... fa sorgere a sua volta “sono felice”, “non sono felice”: se ottengo
ciò che mi piace sono felice, se non l’ottengo sono infelice; se ottengo ciò
che non mi piace sono triste. Se tutte
le cose che non mi piacciono finiscono di esistere, sono felice!
Questi
stati (felicità, infelicità) sono direttamente in relazione con i miei piaceri
e dispiaceri: l’uno fa sorgere l’altro e tutte queste cose vengono fuori dall'ignoranza. E’ tutto così semplice,
non c’è una filosofia complicata in questo, basta che ti ricordi che tutto
sorge dal sonno, dalla non-consapevolezza del sonno.
Come
eliminare quest'inconsapevolezza senza creare tutti gli altri problemi è il
compito dello yoga. Mentre la coscienza emerge,
qualcosa deve essere fatto per eliminare il "cordone ombelicale" al
momento giusto. C’è un cordone che
collega uno stato all'altro: appena sta
emergendo, bisogna avere un'intensità di
attenzione che lo tagli lì, senza
permettergli di creare problemi. E’ possibile fare questo?
Deve
essere possibile! Perché? I maestri
osservarono la vita e notarono che ci sono momenti di grande gioia, di grande
estasi ogni giorno, mentre siamo svegli: durante quei momenti il separante
senso dell’ego è sospeso. Si può anche
trattare di pazzia totale o di ubriachezza, di stato di trans, estasi indotta o
meno, di grande amore, grande affetto: tutti questi stati sono capaci di
sospendere l’ego per qualche attimo o anche per un’ora; questo indica che l'esperienza
estatica è possibile durante lo stato di veglia.
Ma,
notiamo che diventa possibile, non perché tu ed io la vogliamo; nel momento in cui dici di voler sentire
quest'esperienza, la perdi, la mandi via; con l’azione stessa di afferrarla, la
distruggi: questo perché, quello che vuole avere l'esperienza è di nuovo
l’ego. Io voglio la realizzazione del sé!
Io voglio realizzare dio! - Ma perché
non un altro?
Cos'è dunque che bisogna eliminare? Qual’è
l’ostacolo? Qual’è l’impedimento e come
deve essere eliminato? L’ego dev'essere eliminato. Come dev'essere eliminato? Chi elimina l’ego e perché? Perché io voglio essere felice? Perché voglio avere pace? Finché vuoi avere pace, non avrai pace, è
ovvio: il volere stesso è infelicità e tu
lo sostieni.
Senza
dirlo in così tante parole, il maestro introduce una parola“yama”. Yama è una strana
parola che ha tanti significati; due di essi sono rilevanti: uno è
“restrizione”, l’altro è “morte”. Yama
nella mitologia è il dio che presiede alla morte.
Ho
spesso detto questo: che io creda o no in dio, ogni qualvolta penso alla morte
mi viene da credere in dio - nessun altro poteva inventare questo meccanismo.
Il
Dottor Carrell nel suo libro “Man the
unknown” (L’uomo, questo sconosciuto) spiega come aveva scoperto un metodo
per riparare le arterie, per riunirle e aveva trovato che il metodo
funzionava. Poi commenta: “Io non ho fatto in modo che fosse così; ho
scoperto che questo metodo è possibile, la possibilità esisteva anche prima”.
Se
un medico inietta un siero nelle mie vene e muoio, non è veramente il dottore
che mi ha ucciso; la morte è lì già presente ed è stata inventata da qualche
altro: chiunque questi sia, è dio. Se la
morte non ci fosse, immaginate quanti folli, delinquenti, crudeli, aggressivi
continuerebbero a vivere su questa terra per sempre, per sempre?! La morte mette fine a ciò, “restringe”. La morte è la più grande delle restrizioni.
Sfortunatamente
abbiamo cercato di spingere la morte lontano dalla nostra vita; fisicamente e
psicologicamente essa è una di quelle cose di cui non si può parlare. Ma lo yogi dice: mettila davanti ai tuoi
occhi adesso, non pensare alla morte come ad un evento futuro, ma guardala
adesso - yama!
Non
ho detto questo ieri, per non far sembrare triste l’introduzione: considerate
questa settimana come l’ultima e pensate che forse sarà l'ultima volta che lo
Swami è qui perciò, quello che voi ed io vogliamo fare, facciamolo ora.
Ecco
la domanda posta all’inizio della “Bhagavatam”.
Un uomo destinato a morire il settimo giorno chiede ad un grande maestro:
“Ditemi: quando uno
sa che sta per morire, cosa deve fare?”
Noi
abbiamo un vantaggio su quella persona, perché lui aveva sette giorni di vita
garantiti! Nel nostro caso questa
garanzia non esiste. D’altro canto,
tutti siamo destinati a morire uno di questi sette giorni; la settimana ha solo
sette giorni: uno di questi sette giorni moriremo, può darsi che sia ora, può
darsi che sia tra cent'anni, ma sarà uno di questi sette giorni!!
La
domanda è: possiamo portare questa morte nella nostra vita immediata? Allora la restrizione è portata direttamente
alla nostra vita, e può prendersi cura di quelle che sono chiamate le discipline
dello yama. Il senso dell’ego è fermato proprio nel
momento in cui sta emergendo.
Alcuni
di voi sono interessati al Sanscrito.
“Ego” è conosciuto come “aham”.
Si tratta solo di una parola, una parola convenzionale, non immaginate
che sia una solida realtà, non lo è, è solo una parola. Quando tratti l’ego come una realtà consistente,
ti metti nei guai.
Una
volta, in Sud Africa, qualcuno mi portò alla punta del Capo di Buona Speranza,
e mi indicò:
“Vedi Swami, quello è
il punto preciso in cui l’Oceano Atlantico e l’Oceano Indiano s’incontrano, una
linea precisa, di qui è l’Atlantico, di lì è l’Indiano".
-
Dio mio! ma qui c’è solo acqua... -
“No, no, qui ci sono
due Oceani e questo è il loro punto d’incontro!”
Va
bene, per lo scopo di creare un atlante e per le altre convenienze, vuoi
chiamarlo con un nome… ma che diventi una realtà!?
Quando
tratti qualcosa, che è materia di convenienza, come realtà, ti metti in
difficoltà. “Aham” è una parola con nessuna corrispondente realtà. Non puoi indicare nessuna parte del corpo, o
qualsiasi altro posto, dicendo: “questo è l'io” - no!
La
parola successiva in questa serie che studiamo è“aham-bhavana”. C’è un
sentimento, una sensazione: “io sono”.
Anche nella meditazione profonda c’è un senso “io sono”. Questo non può
e forse non ha bisogno di essere subito eliminato, si eliminerà da solo. Questo pensiero (vritti), questa sensazione, non appartiene a te, è come una
vibrazione, una pulsazione che sorge nella totalità cosmica.
Ora
c’è un enigma che non è affatto facile da risolvere: come fa quella
pulsazione (che era presente anche nel sonno) ad identificarsi con il
corpo e a restarci intrappolato? La
scoperta della risposta a questa domanda è yoga. Quella pulsazione “aham-bhavana”, come e quando viene intrappolata nel corpo, facendo
sorgere l’idea che “io sono questo corpo”?
Da questo punto in poi, qualsiasi cosa il corpo fa è considerato come
quello che “io” sto facendo. A questo
punto l’identificazione viene chiamata “aham-kara”.
“Kara” vuol dire fare, agire. Dire che quello che fa il corpo corrisponde a
quello "io" faccio è ovviamente un mito. Perché?
E’ così, perché, se io sono questo corpo e sto lavorando attraverso
questo corpo (il che vuol dire che il corpo è mio e quando dico “io sono” , mi
riferisco al corpo), allora “io”, cioè questo corpo, deve essere capace di fare
tutto ciò che io voglio.
Questo
è impossibile. Quando il corpo non vuole
dormire, ti giri e ti rigiri nel letto quindici o venti volte e non succede
proprio niente! Se il corpo vuole
sedersi per guardare un film, lo fa facilmente anche per otto o dieci ore; ma
se ti vuoi sedere a meditare per mezz’ora, cominci ad avere prurito di qua,
scomodità di là, ... perché è così? Né
il corpo è tuo né tu sei il corpo! “Io
sono” non è il corpo.
Il
problema non è “io sono”, non è sentire di “essere”; il problema non è
l’esistenza di “io sono”; il problema è una confusione di “io sono” con “io
sono il corpo”.
E’
il corpo indipendente da “io sono”? Non
lo so . Tutti i problemi collegati a
questa domanda devono essere individualmente, personalmente ricercati,
immergendosi nella domanda stessa. Prima
parlavamo di “guardare a”: si tratta
di un tipo di osservare superficiale.
Guardare dentro è conoscenza.
“Adamo conobbe Eva” - guardare
dentro, immettersi. Il simbolismo
sessuale è solo incidentale. Conoscenza non è guardare a, ma guardare in. Possiamo allora guardare dentro il problema
di come questo “aham-bhavana” è
intrappolato nel corpo e pensa “io sto facendo questo”?
Quando c’è questa identificazione,
istantaneamente “io sono” pensa di essere limitato; allora le cose di cui il
corpo gode, le cose di cui il corpo soffre, ciò che succede al corpo, pensa che
succedano a sé, e da lì iniziano problemi a non finire. Può questo avere
termine? Sì! la fine c’è: yama, il
nostro amico, mette fine a tutto ciò.
Un giorno questo yama (venendo come morte del corpo) ti
fa vedere che non sei questo corpo. Non so se noi stessi viviamo quest'esperienza;
certamente gli altri che vengono intorno possono rendersi conto che quell'uomo
non è più il corpo: pensava di essere il corpo, ma il corpo lo ha buttato
fuori! Questa è la verità.
In India si vedono spesso persone
ridotte ad uno stato tale, da diventare incapaci di muoversi e di fare
qualunque cosa, colmi di sofferenza: per loro ciò che questo yama porta è un sollievo, un immenso
sollievo. Può questo sollievo essere
portato ora? Questa è la domanda.
Sto soffrendo, sono infelice, sono
inquieto, non ho pace, tutto ciò perché c’è un sentimento stupido, irrazionale
che io sia questo corpo, che tutto ciò che succede al corpo succeda a me e che
tutto ciò che il corpo fa io faccia.
Guardare dentro questo problema, non al
problema e trovare una risposta è il compito dello yoga. Questo yama
è un fattore, una causa, un’intelligenza o dio, che sa come tagliare questo
legame. Puoi chiamarlo legame, ma yama sa come tagliarlo, la vita arriva
alla fine senza sforzo. Anche la
cosiddetta lotta per la sopravvivenza è solo la stupida ignoranza che vuole
perpetuarsi.
Quando finalmente la morte viene,
c’è rilassamento totale e pace assoluta.
Non c’è sforzo, non c’è problema.
E’ la folle identificazione di sé con il corpo che lotta, si sforza di
mantenere quest'identificazione. La lotta
è per non abbandonare quest'idea. Una
volta che quest'idea è abbandonata c’è beatitudine, pace, gioia eccetto che: se
vai in questo tipo di sonno con la mente piena di desideri non appagati, ti
svegli di nuovo e cerchi una soddisfazione di questi stessi desideri; continui
poi allo stesso modo e di nuovo poi hai un’altra morte.
Una morte non puoi evitarla:
chiunque è nato non può evitare di morire una volta. Lo yogi cerca di fare in modo di non nascere
di nuovo, in modo da non morire di nuovo.
Non nascere di nuovo neanche in un paradiso; non ci interessa questo
paradiso. In Ebraico paradiso è “pardes”: orto, frutteto. E’ possibilissimo che questa parola venga dal
sanscrito (o viceversa) “pardesh” che
significa semplicemente un’altra terra, un altro posto, un altro mondo. Vuol dire un altro sistema, nello stesso modo
in cui per chi vive in India o in Cina, l’Europa è un paradiso per le sue
comodità e per chi vive qui l’India o la Cina sono un paradiso per il sole e le altre
bellezze naturali. Quindi paradiso è
solo “pardesh”: chi vuole
andarci? Io no! C’è un modo di terminare questo grande dramma
tutto d’un colpo? E’ possibile portare
questo Yama o dio della morte nella
nostra vita di ogni giorno, di ogni ora?
Il metodo è di restare svegli e
attenti per vedere dove questo “io sono” diventa “io sono questo”. Torniamo
ancora alla Bibbia:
“Io sono
colui che sono” (Es,3,14).
Non - “sono questo”; “sono questo” è
limitato, “sono colui o quello” è illimitato.
Sono questo vuol dire non quello; sono quello, non è in opposizione a
“sono questo”, ma è la totalità.
Non c’è negazione di “io sono”, ma
c’è negazione di questa limitazione. Se
faccio per un po' il gioco di guardare te e poi lei: sto guardando te...sto guardando
lei: quando guardo te la tua faccia è chiara; quando guardo lei la tua faccia
scompare, non c’è per niente; ora l’esperienza di vedere la tua faccia non
esiste, eccetto in qualità di ciò che voi ed io siamo venuti ad accettare come
memoria. Questa “memoria” è “me”, non
c’è alcun altro me, non c’è alcun altro ego perpetuo, non c’è un io continuo:
si tratta solo di memoria. La memoria è
accettata come sé, la memoria è accettata come me, la memoria è accettata come
‘io’ continuo “ahamkara”.